Il 17 aprile 1555 il governo repubblicano senese siglava con Cosimo Medici i capitoli della resa. Questo atto non chiudeva la guerra di Siena, i cui prodromi sono da collocare nell’estate del 1552, quando i senesi avevano preso d’assalto e smantellato la fortezza che era il simbolo del deprecato controllo spagnolo sulla città: come è ben noto, la partita si sarebbe definitivamente chiusa solo nel 1559, quando la pax hispanica, con gli accordi di Cateau Cambrésis, sarebbe calata sulla penisola.
Da quel luglio del 1552 Cosimo – dal 9 gennaio 1537 «capo e primario del governo della Città di Firenze e suo Dominio» per delibera del Senato dei Quarantotto; autorizzato con diploma imperiale del 30 settembre di quell’anno a fregiarsi del titolo di ‘duca’ – era abile a porsi quale alleato fidato e irrinunciabile per l’imperatore Carlo V. Nel più ampio confronto fra Impero e Francia per il controllo degli spazi italiani Carlo, come scrive Roberto Cantagalli, ambiva soprattutto a dare una soluzione a «quella turbolenta debolezza al centro dell’Italia [che] veniva a esercitare una tentazione pericolosa e un allettante richiamo per le speculazioni del suo avversario» (p. LXV).
Verso questa «turbolenta debolezza», rappresentata dall’esteso lembo di territorio governato dalla Repubblica di Siena, si erano accesi e si accenderanno gli appetiti di diversi pontefici: di Paolo III, che negli anni Trenta aveva guardato a Siena a vantaggio di Pier Luigi Farnese, fino a quando questi non ebbe infeudate Parma e Piacenza; di Giulio III per il nipote Fabiano del Monte; poi, anche dopo la resa del 1555, di Paolo IV, anche questi alla ricerca di uno Stato per il nipote, il cardinale Carlo Carafa.
Dal canto suo, Cosimo era determinato ad acquisire un territorio che avrebbe costituito un tassello di primaria importanza nel processo di costruzione dello Stato, elevando la qualità del suo status di principe all’interno del sistema dinastico italiano e risolvendo una volta per tutte il problema di una vicina repubblica ostile, pericolosa per il sostegno che poteva assicurare ai fuoriusciti fiorentini. Fallito il progetto di acquisizione di Piombino (dove la posizione degli Appiani appariva stabile, sotto la tutela spagnola, dal 1545), Cosimo guarda dunque a Siena e si appresta a giocare una partita niente affatto scontata negli esiti.
Nel quadro d’instabilità politica della Repubblica senese, contraddistinto dalla presenza e dall’alternarsi al potere di fazioni nobiliari (i ‘Monti’), il controllo sulla città da parte spagnola si era fatto più stringente dal 1540-1541, quando vi era stata stabilita una guarnigione di 3.000 soldati. La ‘stretta’ era divenuta più decisa con l’invio dell’emissario imperiale don Diego Hurtado de Mendoza e soprattutto con la costruzione di una fortezza. La congiura e i fatti che portarono alla cacciata degli spagnoli il 27 luglio 1552 entrano a pieno titolo in quella ‘mitologia repubblicana’ che Siena ha rielaborato e perfezionato dal tardo Ottocento e nella prima metà del Novecento, mitologia che ancora oggi segna in modo così profondo l’identità cittadina ed appare perfettamente leggibile nel Corteo che precede la corsa del Palio.
Seguirono, in quell’estate del 1552, il protettorato francese su Siena, e riforme del governo cittadino che miravano ad un equilibrio impossibile tra i Monti. L’attacco alla Repubblica partì dal Napoletano, ma solo all’inizio del 1553: don Garcia de Toledo, figlio del vicerè di Napoli e cognato di Cosimo, era alla guida della spedizione. Il suo richiamo nel maggio di quell’anno nel Regno di Napoli offriva a Cosimo, finalmente, la possibilità di giocare da protagonista la partita e di dismettere panni ambigui, non ultimo l’atteggiamento di protettore della libertas senese.
Nel gennaio 1554 il Duca di Firenze si preparava ad attaccare. Le truppe medicee erano comandate da Giangiacomo Medici di Marignano, mentre i francesi schieravano alla loro testa il maresciallo di Francia e luogotenente di Enrico II in Italia Piero Strozzi, venuto – scriveva Cosimo a Giulio III in una lettera del 21 gennaio 1554 – «con malvagi disegni e chimere […] per finir del tuto de occupar Siena e la sua libertà et, dal altro canto, offender me» (cit. in Diaz, p. 118).
L’arrivo di un contingente francese capitanato da Blaise de Montluc, che racconterà la guerra nei suoi celebri Commentari, non risultava determinante. Dopo una serie di errori tattici da parte dello Strozzi, la battaglia di Scannagallo presso Marciano il 2 agosto 1554 chiudeva il confronto (Cosimo, in memoria di questo evento, farà erigere nel 1572 una colonna in Piazza San Felice, parte di un programma di risignificazione dello spazio urbano che comprendeva anche la colonna della Giustizia in Piazza Santa Trinita e una colonna mai eretta in Piazza San Marco recante la statua della Religione).
Siena, soccorsa dallo Strozzi e assediata, non si arrendeva. Alessandro Sozzini racconta con partecipazione il dramma dell’assedio, il susseguirsi dei bandi che prescrivevano, nell’illusione che la salvezza della città fosse ancora possibile, l’espulsione delle «bocche inutili», cioè di coloro che nella città bisognosa di tutto potevano essere solo di peso (il censimento delle bocche utili e disutili del Terzo di Città, ordinato per parrocchie, in ASSI, Balia, 954).
Migliaia di persone, fra cui i fanciulli accolti dallo Spedale, furono allontanate dalla città, e non furono risparmiate dai nemici. L’assedio si protrasse alcuni mesi, concludendosi con la resa e la sottoscrizione di quei patti da cui abbiamo preso le mosse.
I capitoli venivano sottoscritti da Cosimo in nome di Carlo V. Tra le clausole, quella che Siena sarebbe stata sotto la protezione del Duca di Firenze e sotto quella del Sacro Romano Impero; il rispetto della partizione in Monti del ceto dirigente senese; il diritto dei vinti di uscire dalla città con famiglie e beni, e eventualmente di farvi ritorno senza subire ritorsioni. Non furono pochi, considerando la decimazione subita dalla popolazione, coloro che lasciarono la città domenica 21 aprile: da Porta Romana uscirono i soldati francesi e, insieme a loro, 435 popolani armati con le loro famiglie, e 242 cittadini nobili, anch’essi con famiglie e servitù. Il drappello portava con sé le insegne e i sigilli del Comune, pronto a dare vita, con la protezione francese, alla Repubblica di Siena ritirata in Montalcino.
Sarà pur vero, come scrive un erudito senese del Settecento, Giovanni Antonio Pecci, che quella Repubblica nasceva già morta, ma è bene non dimenticare l’instabilità del quadro generale e, per quanto qui interessa, quanto la scommessa di Cosimo di un’acquisizione e controllo del Senese risultasse ancora tutt’altro che vinta. Carlo V infatti, in vari atti di poco successivi ai capitoli, definiva Siena «Civitas nostra imperialis», mentre il governo di Siena non mancava di rimettersi interamente nelle mani dell’Imperatore; se proprio si doveva rinunciare alla libertà, meglio esser dominati «da Principe potente e lontano, piuttosto che divenir sudditi di piccolo e vicino» (è ancora dal Pecci che si cita). Per Cosimo diveniva preoccupazione costante quella di legittimare e rafforzare la sua posizione, di consolidare vieppiù il ruolo di protettore della Repubblica che nella primavera del 1555 aveva ottenuto. I risultati, da questo punto di vista, apparivano altalenanti: un privilegio imperiale del 16 gennaio 1556 riconosceva infatti a Filippo II, con il titolo di Vicario generale, piena potestà e giurisdizione sulla città di Siena e sul suo Dominio; qualche mese dopo, però, al destinatario del privilegio era data la possibilità di trasferire il titolo come concessione feudale o in altra forma.
La cessione di Siena a Cosimo, dopo sue ripetute minacce di passare al campo avversario, avvenne il 3 luglio 1557: il Duca riceveva Siena e il suo Stato a titolo di subinfeudazione, avendoli Filippo II avuti in feudo, trasferibile ai discendenti maschi. Restavano escluse dal nuovo possedimento mediceo, o Stato Nuovo, alcune fortezze marittime, cioè Orbetello, Talamone, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e l’Argentario, che andavano a costituire lo Stato dei Presidi. Cosimo doveva rinunciare anche al Principato di Piombino, mentre acquisiva Portoferraio.
Filippo II evitava così «di accollarsi i problemi che un governo diretto di Siena gli avrebbe comportato: cedeva un territorio devastato dalle operazioni belliche continue, ormai al collasso sia demografico che economico. […] Al contempo il re legava a sé, distogliendolo da possibili alleanze con la Francia e altri potentati, Cosimo, che in quanto suo vassallo doveva essergli giuridicamente fedele e riconoscere il dominio eminente dell’Impero e della Spagna su Siena e il suo territorio, oltreché accettare la mutilazione di quello che si sarebbe chiamato lo Stato dei Presidi» (Ascheri, p. 189). Due anni dopo, con la stipula della pace di Cateau Cambrésis, terminava anche l’esperienza repubblicana a Montalcino.
La conquista di Siena dette al Duca di Firenze e di Siena l’occasione per una complessa ridefinizione di ruolo all’interno del sistema dinastico italiano: basti pensare al programma iconografico del Salone dei Cinquecento, in atto a partire dal 1563. Al centro della composizione si colloca, come è ben noto, la rappresentazione dell’apoteosi di Cosimo, mentre le guerre contro Pisa e Siena assumono un rilievo assoluto, esaltando le capacità e l’efficienza del duca e rappresentando momenti cardine del processo di costruzione dello Stato. Significativo è che Cosimo appaia nell’apoteosi doppiamente incoronato, dalla corona di quercia (civica) e da quella aurea (principesca), disegnando così il passaggio dalla Repubblica al Principato.
Ancora più emblematica del valore assunto in modo specifico dall’acquisizione dello Stato Nuovo appare l’incisione di Martino Rota, che raffigura un’allegoria alata della Toscana recante due corone: la prima, ducale, viene porta dalla Toscana ad Alessandro; la seconda, granducale – raggiata con al centro il giglio rosso – a Cosimo. Ai piedi del primo si distende una veduta di Firenze, mentre una veduta di Siena si spiega sotto il medaglione con l’effigie del Magnus Dux Etruriae Cosmus Medices. La conquista di Siena è qui direttamente associata alla corona granducale, acquisita da Cosimo nel 1569; si era trattato di un riconoscimento papale, poco gradito agli Asburgo d’Austria e di Spagna che si ritenevano lesi nei loro diritti di concessionari rispetto allo Stato Nuovo, ma che poneva Cosimo in posizione di preminenza rispetto agli altri principi italiani.
La riorganizzazione del sistema istituzionale senese dopo la conquista avvenne con la Reformatione del Governo della Città, e Stato di Siena dell’1 febbraio 1561. Non mancò anche la riedificazione della fortezza. Il nuovo dominio continuò per un periodo non brevissimo a porre problemi di stabilità e controllo ai granduchi e ai governatori che essi nominarono in loro rappresentanza. Un ambasciatore veneto, Vincenzo Fedeli, annotava nel 1561 che i senesi «dicono ora che non potriano tollerare, né tollerarieno mai, d’esser sottoposti a’ fiorentini; ma che, con la casa de’ Medici non avendo mai avuto inimicizia, sopportano d’essere da quella governati, poiché a quella vedono medesimamente sottoposti i fiorentini» (Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, III: Firenze, parte prima, Bari, Laterza, 1916, p. 132). Nella pratica, però, i primi due-tre decenni dopo la conquista furono di aperta contrapposizione tra le magistrature locali e la dinastia, contrapposizione che si giocò soprattutto sul delicato tema del controllo degli accessi alla cittadinanza senese, sulla quale i senesi non volevano interferenze da parte medicea. Poi un equilibrio fu trovato, e si basò sul riconoscimento di forme ampie di autoregolazione per il ceto dirigente senese: all’inizio del Seicento la città appariva pacificata, e parte della sua nobiltà strettamente legata ai Medici.
È la figlia di Ferdinando I Medici e Cristina di Lorena, Caterina Medici Gonzaga, ad inaugurare nel luglio 1627 la serie dei governatorati della Città e Stato di Siena destinati a principi del sangue; esperienza breve, quella di Caterina, che si chiude dopo appena ventidue mesi con la morte della principessa per vaiolo la sera del 12 aprile 1629, ma tappa molto significativa del nuovo equilibrio raggiunto tra Casa Medici e lo Stato Nuovo.
(Aurora Savelli - Università di Napoli L’Orientale)
Bibliografia sintetica
M. Ascheri, Siena nella storia, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 2000
C. Callard, La costruzione della dinastia medicea, in J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon (a cura di), Firenze e la Toscana. Genesi e trasformazione di uno stato (XIV-XIX secolo), Firenze, Mandragora, 2010 [ed. or.: Presses Universitaires de Rennes, 2004], pp. 335-351
R. Cantagalli, La guerra di Siena (1552-1559), Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1962
A.D’Addario, Il problema senese nella storia italiana della prima metà del Cinquecento: la guerra di Siena, Firenze, F. Le Monnier, 1958
F. Diaz, Il Granducato di Toscana. I Medici, Torino, UTET, 1976
D. Marrara, C. Rossi, Lo Stato di Siena tra Impero, Spagna e Principato mediceo (1554-1560): questioni giuridiche e istituzionali, in Toscana e Spagna nell’età moderna e contemporanea, Pisa, Edizioni ETS, 1998, pp.1-53
P. Morel, Ritratti e immagini del principe nella Firenze del XVI secolo, in J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon (a cura di), Firenze e la Toscana cit., pp. 303-333
A. Savelli, Siena: il popolo e le contrade, XVI-XX secolo, Firenze, Olschki, 2008
A. Savelli, Tra interessi dinastici e equilibri locali: Caterina Medici Gonzaga Governatrice dello Stato Nuovo (1627-1629), in M. Aglietti (a cura di), Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di S. Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, Pisa, Edizioni ETS, 2009, pp. 33-56